Vai al contenuto

Donne di conforto: evoluzione della narrativa in Corea del Sud e le sue implicazioni politiche

Donne di conforto: l’evoluzione della narrativa sudcoreana e il suo impatto politico.

Un silenzio lungo decenni.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la questione delle “donne di conforto” rimase per decenni un argomento tabù in Corea del Sud.

Questo silenzio non fu solo il risultato della mancanza di documentazione o attenzione internazionale, ma affondava le sue radici in un contesto culturale e sociale profondamente segnato dal confucianesimo. In una società dove l’onore familiare e la purezza femminile erano considerati valori fondamentali, molte vittime preferirono non raccontare le violenze subite, per timore di essere stigmatizzate o rifiutate dalla propria comunità.

Al contrario, in Giappone, la prostituzione era legalizzata fino al 1956 ed era ampiamente accettata dalla società, rendendo l’argomento meno tabù.

La prima frattura in questo silenzio avvenne solo nel 1991, quando Kim Hak-sun, una ex donna di conforto, decise di raccontare pubblicamente la sua storia. La sua testimonianza fu rivoluzionaria: non solo ruppe il tabù nazionale, ma diede il coraggio ad altre sopravvissute di farsi avanti. Le sue parole gettarono nuova luce su un capitolo oscuro della storia asiatica e spinsero l’opinione pubblica e i media a occuparsi più attivamente della questione.

La controversia delle narrazioni

Negli anni successivi, la narrativa dominante in Corea del Sud definì le donne di conforto come vittime di schiavitù sessuale imposta dall’esercito giapponese. Tuttavia, alcuni storici e intellettuali offrirono interpretazioni più sfumate, tra cui Park Yu-ha, docente alla Sejong University. Nel suo libro più discusso, “Comfort Women of the Empire”, Park sostiene che non tutte le donne furono rapite con la forza e che alcune, pur in condizioni difficili, ebbero relazioni affettive o economiche con soldati giapponesi. Questo non per negare la sofferenza, ma per proporre una lettura meno monolitica e più complessa.

Le sue tesi suscitarono forti reazioni, accuse di revisionismo e denunce legali per diffamazione da parte di alcuni gruppi di ex vittime. Park fu processata, ma infine assolta, in quanto la corte riconobbe che le sue affermazioni, pur controverse, erano basate su fonti storiche e protette dalla libertà accademica. Altri suoi lavori, come “Il tempo della memoria” e “La ferita e la voce”, trattano più in generale della memoria storica e del trauma collettivo in Asia orientale.

Bandiere di Corea del Sud e Giappone su sfondo con mappa geografica.
Rappresentazione della Corea del Sud e del Giappone con le rispettive bandiere su mappa. – leonardo.it

Implicazioni diplomatiche e l’accordo del 2015

Nel tentativo di risolvere diplomaticamente la questione, il Giappone e la Corea del Sud firmarono nel dicembre 2015 un accordo definito “finale e irreversibile”. Il Giappone si impegnò a versare circa 1 miliardo di yen a un fondo per le vittime e rilasciò una dichiarazione ufficiale di scuse. In cambio, il governo sudcoreano si impegnò a considerare la questione chiusa e a non criticare ulteriormente il Giappone sulla scena internazionale.

Tuttavia, l’accordo fu fortemente criticato dalla società civile sudcoreana. Molte delle ex donne di conforto non furono consultate, e alcune rifiutarono i fondi, considerandoli insufficienti o offensivi. Nel 2019, il presidente Moon Jae-in sciolse la fondazione che gestiva i fondi, mettendo di fatto fine all’accordo.

In parallelo, il Giappone affrontò anche la questione dei lavoratori forzati coreani impiegati nelle fabbriche e nelle miniere durante la guerra. Sebbene il trattato del 1965 tra i due paesi avesse previsto compensazioni economiche globali, molte vittime individuali non ricevettero mai un risarcimento diretto. Sentenze recenti dei tribunali sudcoreani hanno ordinato il sequestro di beni di imprese giapponesi come forma di indennizzo, provocando nuove tensioni diplomatiche.

Il movimento “No Japan” e il tribalismo anti-giapponese

Le tensioni storiche hanno alimentato anche reazioni popolari. A partire dal 2019 si è sviluppato in Corea del Sud il movimento “No Japan”, in risposta alle restrizioni giapponesi sull’esportazione di materiali industriali chiave verso Seoul. Il boicottaggio dei prodotti giapponesi si estese rapidamente dai social media alla vita quotidiana: catene di supermercati ritirarono beni di consumo giapponesi, le vendite di automobili nipponiche calarono drasticamente, e persino il turismo verso il Giappone ne risentì. Secondo un’analisi, le importazioni dalla Corea del Sud al Giappone sono diminuite del 30% nel 2020 rispetto all’anno precedente.

Questo clima di ostilità è stato criticato da alcuni intellettuali come Lee Young-hoon, economista e autore del bestseller “Anti-Japan Tribalism”. In questo libro, Lee accusa una parte della società coreana di promuovere un tribalismo anti-giapponese, alimentato da una memoria storica selettiva e politicamente strumentalizzata. Secondo lui, la narrativa vittimistica viene utilizzata da alcune élite politiche per consolidare il consenso interno e deviare l’attenzione da altri problemi.

Conclusioni

La questione delle donne di conforto continua a rappresentare una ferita aperta, non solo tra Corea del Sud e Giappone, ma anche all’interno della società coreana stessa. Le interpretazioni contrastanti, il peso del trauma collettivo e l’utilizzo politico del passato rendono difficile qualsiasi riconciliazione definitiva. Tuttavia, un dialogo aperto tra storici, istituzioni e opinione pubblica potrebbe favorire una comprensione più onesta e articolata di una pagina tragica della storia asiatica.

Il dibattito sulle donne di conforto, in definitiva, è anche un dibattito sul presente: sulla memoria, sulla giustizia e sull’identità di una nazione che cerca ancora di fare i conti con il proprio passato.

Riproduzione riservata © 2025 - LEO

ultimo aggiornamento: 3 Giugno 2025 12:39

Tirolo, Merano e dintorni: un’estate tra trekking, panorami spettacolari, cultura e relax